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Il sei, la pagella e la valutazione formativa

Arriva il mese di giugno. E puntuale, insieme a esso, il momento più temuto dagli studenti: la pagella, i "voti", i "debiti". Un intero anno di scuola, con i suoi alti e bassi, racchiuso in un numero. Del resto, si è sempre fatto così, no? E spesso si tende a considerare questa cifra come se rappresentasse davvero il valore dello studente, e non piuttosto la sua capacità di svolgere un determinato compito in un determinato momento, seguendo determinate indicazioni. E non è questo il momento per parlare di quanto aleatori siano questi concetti.

Valutare non è contare. Eppure, nella maggior parte delle scuole italiane, la valutazione si riduce spesso a un numero. Un 6 per dire “sufficiente”, un 4 per dire “hai sbagliato”, un 9 per dire “bravo”. Ma cosa raccontano davvero questi numeri? E cosa provocano nella mente di uno studente?

Immaginiamo due alunni: Giulia ha preso 4 in storia. Ha studiato, ma è andata in ansia durante l’interrogazione. Suo padre le dice che “non si impegna abbastanza”, lei si convince di essere “negata”. Matteo, invece, prende 8 in scienze: è soddisfatto, ma non sa bene perché ha preso 8, né cosa avrebbe dovuto fare per arrivare a 9. Entrambi ricevono un numero, ma nessuno dei due riceve un aiuto per migliorare davvero. La valutazione sommativa, quella dei voti, dei test standardizzati, delle pagelle, non spiega, non guida, non educa. Etichetta.

La valutazione formativa, invece, racconta una storia diversa. È quella che si fa ogni giorno in classe, quando l’insegnante ascolta le domande degli studenti e capisce dove si sono fermati. È quella che si fa quando si restituisce un compito con osservazioni puntuali: “Hai spiegato bene la causa, ma prova a sviluppare meglio la conseguenza”. È quella che valorizza i processi: l’impegno, la capacità di chiedere aiuto, la creatività di un approccio. È una valutazione che non arriva alla fine, ma accompagna il percorso, che non punisce l’errore, ma lo analizza e lo trasforma in strumento di crescita. E che non si limita a un approccio numerico: un esercizio corretto vale due punti, per cui ne servono tre per raggiungere la sufficienza. No. Si valutano piuttosto il progresso, il percorso personale e la capacità di superare le difficoltà. Valori che, tra l'altro, rimarranno per tutta la vita, e non rappresentano soltanto la capacità di risolvere un'equazione di secondo grado, o la conoscenza mnemonica dei paradigmi dei verbi irregolari in inglese.

Molti studenti, soprattutto quelli con difficoltà di apprendimento o fragilità emotive, vivono i voti come una minaccia. “Se prendo un brutto voto, deludo tutti”. “Se non arrivo almeno a 6, allora non valgo nulla”. È facile dire che “devono imparare ad accettare le critiche”, ma è altrettanto facile dimenticare che la scuola è anche il luogo in cui si forma l’identità personale. Un voto negativo ripetuto può diventare una profezia che si autoavvera. Se non credo in me stesso, smetterò di provarci.

Un sistema valutativo centrato solo sui voti produce conformismo: chi ha già buoni risultati tenderà a mantenere il livello, senza rischiare. Chi parte in difficoltà, invece, si convincerà di non poter cambiare il proprio destino. In questo contesto, l’apprendimento autentico perde terreno: si studia per il voto, non per comprendere. Si memorizza per sopravvivere alla verifica, non per costruire sapere. Un fallimento educativo secondo tutti i punti di vista.

Valutare in modo formativo richiede più tempo, più attenzione, più umanità. Non basta dire “bravo” o “non va bene”. Bisogna entrare nel merito, spiegare, motivare. Richiede anche di coinvolgere lo studente, di abituarlo all’autovalutazione: “In cosa pensi di essere migliorato? Cosa non ti è riuscito bene? Cosa potresti fare diversamente la prossima volta?”. Così lo si rende protagonista, non spettatore passivo del proprio apprendimento. E magari si riesce in quello che dovrebbe essere lo scopo principale dell'istruzione: trasmettere l'amore per la conoscenza, e le capacità necessarie per proseguire in un percorso di apprendimento che dura tutta la vita.

Non si tratta di abolire i voti, ma di metterli al loro posto: alla fine, come un possibile riassunto di un percorso, non come unica voce che lo definisce. Il voto non è il giudizio sull’alunno, ma solo uno strumento (tra tanti) per dare un’indicazione. La vera valutazione educativa è quella che, giorno dopo giorno, alimenta la curiosità, sostiene la motivazione e rende visibili i progressi, anche quelli piccoli e invisibili a un numero.

In un’epoca in cui parliamo sempre più di personalizzazione della didattica, inclusione e benessere a scuola, continuare a ridurre la valutazione a una media aritmetica è una contraddizione. Perché se vogliamo che ogni studente cresca, dobbiamo iniziare a misurare non solo quanto sa, ma quanto riesce a imparare. E per farlo, serve uno sguardo formativo, non solo un registro elettronico pieno di cifre.

 Valentina La S.

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