Non come, ma perché motivare un alunno
Oggigiorno la didattica sta prendendo sempre più un aspetto umano: si pone al centro di tutto l’alunno, lo studente, cercando di mettere a fuoco quali possono essere le sue emozioni, le sue sensazioni e le sue paure.
Tale focus sull’aspetto emotivo è legato all’apprendimento e al lavoro del docente, poiché è scientificamente provato che lo stato d’animo di uno studente gioca un ruolo fondamentale sull’apprendimento e sullo studio.
È molto importante quindi stabilire un contatto con l’alunno, mettendolo a proprio agio e cercando di motivarlo il più possibile attraverso un atteggiamento positivo.
Questo tipo discorso è abbastanza conosciuto, lo abbiamo sentito e risentito: la motivazione è un criterio fondamentale per lo studio, e abbiamo visto più volte come fare per arrivare a tale obbiettivo tramite tecniche e consigli di vario genere.
Un aspetto forse meno trattato sono però “le motivazioni della motivazione”, ovvero le ragioni, i motivi di questa tecnica didattica, da un punto di vista scientifico.
Prima di tutto è bene chiarire alcuni punti.
In primo luogo cosa si intende con “motivazione”: questo termine riguarda sia il fatto di dare allo studente delle vere e proprie ragioni per studiare (mostrare come e perché la scuola sia importante, riportare dei legami fra materia di studio e vita reale, ecc...), sia il fatto di non addossare allo studente dello stress negativo (criticare, giudicare, penalizzare) in nessun modo.
Secondariamente bisogna fare una distinzione fra “apprendimento” e “acquisizione”.
L’apprendimento riguarda uno studio formale di concetti e contenuti ed è proprio ciò che l’insegnante dovrebbe evitare, poiché lo studio in questo caso concerne la conoscenza superficiale; perciò tutto ciò che viene appreso verrà posto nella memoria a breve termine, senza poter essere riutilizzato.
In parole povere è quello che succede più spesso agli studenti per le verifiche: si studiano gli argomenti, ma appena finito il compito si dimentica tutto ciò che si è affrontato.
Diversa è invece l’acquisizione: si tratta di un procedimento subconscio, che dipende dalla totale concentrazione e comprensione dei messaggi e dei contenuti trattati dal docente.
Questa andrà invece a sistemare i vari concetti nella memoria a lungo termine.
Lo studente quindi non deve apprendere, ma acquisire, cioè immettere in memoria stabile e poi saper recuperare ciò che ha memorizzato da poterlo usare.
Ma come fare quindi a facilitare la memorizzazione dello studente durante una lezione? La vera risposta è questa: abbassare il filtro affettivo.
Quest’ultimo in realtà è una “metafora psicodidattica che serve per spiegare una realtà organica molto precisa dalla quale dipende la memorizzazione”. (Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse. P. Balboni, Terza edizione, p.85).
Tale principio quindi si basa sulla biochimica: grazie alla convinzione di poter riuscire, l’organismo rilascia neurotrasmettitori (noradrelina) fondamentali per fissare le tracce mnestiche, cioè per interiorizzare e poi ricordare le informazioni dell’argomento/lezione che vengono recepite.
In caso di stress negativo, di ansia, di paura di non riuscire, invece, l’organismo rilascia uno steroide che lo prepara a fronteggiare il pericolo: l’amigdala, una ghiandola “emotiva”, la quale rileva il pericolo e richiede lo steroide.
Allo stesso tempo l’ippocampo (altra ghiandola legata alla memorizzazione a lungo termine) comprende che un test o un esercizio non sono pericoli effettivamente reali e, di conseguenza, cerca di bloccare l’effetto dello steroide.
Il problema tuttavia è che per far ciò smette di occuparsi di indirizzare le nuove informazioni o di recuperare quelle esistenti nella memoria a lungo termine.
È così che le attività didattiche stressanti non si traducono in acquisizione, perché avviene questa lotta ghiandolare che impedisce in parte l’attività cerebrale legata alla memoria di lavoro.
Ne risulta che lo studente va definitivamente “in tilt”, giungendo in alcuni momenti alla totale scena muta.
È qui dunque che vediamo le ragione della motivazione come sopra definita: è necessario trasmettere allo studente la convinzione di poter riuscire, stimolando la sua positività e la fiducia in sé stesso senza giudicare l’errore come una colpa.
L’alunno deve essere sicuro che non verrà criticato per le sue risposte, deve sapere che durante la lezione il suo ego non verrà toccato.
Ergo: la prossima volta che vi capiterà, docenti, di far lezione ricordatevi che a stimoli positivi corrispondono risultati positivi.